Maratona di Barcellona: ecco tutto quello che (non) è successo

Un weekend incredibile, di quelli che – per fortuna – capitano poche volte nella vita. Una serie di fortune e disavventure tutte concentrate in un’unica, indimenticabile, giornata.

Ma facciamo un po’ d’ordine. Partiamo dall’inizio. Sabato mattina, atterraggio a Barcellona. Tutto fila liscio, prendo un taxi e mi faccio portare a Plaza Espana, dove ha sede l’expo della gara, o village (se preferite chiamarlo così). Ad attendermi c’è Victoria, la controparte spagnola di asics, che mi accoglie con un sorriso gigante e mi accompagna in un piccolo tour guidato del mega-giga-stand asics. Poi mi porta un sacchetto, con dentro magliette, pantaloncini, e l’edizione limitata delle DS-Trainer 20, realizzate in soli 1.000 esemplari, per celebrare – appunto – la Maratona di Barcellona.

Me la prendo con calma, e dopo aver salutato – per ora – Victoria, mi faccio un bel giro per l’expo, visito tutti gli stand, compro qualche gel per il giorno dopo, faccio la foto con il pettorale in mano, e con calma torno alla ‘base’. Per un’altra sorpresa. Victoria mi chiede il pettorale, inizialmente il 19.317 e mi porta in uno stand per sostituirlo. Non capisco. Poi l’illuminazione. Mi dice che mi è stato assegnato un pettorale da atleta elite, il 76, e che avrò quindi l’opportunità di vivere tutta la gara, tutte le fasi, come se fossi uno di loro.

Rimango senza parole, è una specie di sogno. Raccolgo tutte le borse e vado in albergo, che rientra – anche lui – nella categoria ‘fortune’ di questo racconto. In una parola: favoloso. Questo è anche l’albergo ufficiale della manifestazione, dove alloggiano e dormono gli atleti elite (ancora loro) della gara. Sono tutti qui, e a vederli – sportivamente parlando – ci si sente davvero piccoli. 

Arriva sera e mangio un piatto di pasta in bianco, un po’ di riso, e vado in camera. Sento un po’ di febbre, di malavoglia, penso sia un po’ di stanchezza, e decido di andare a letto presto. Non preparo nemmeno le cose per la mattina dopo. Qualcosa non va.

La notte passa senza problemi. Mi sveglio, mi vesto, preparo la borsa e scendo per la colazione. Poca fame, faccio fatica a mangiare due fette di pane tostato. Salgo sul pullman con gli atleti top. Ci sono davvero tutti, Kangogo compreso, che vincerà la gara con un tempo di 02:08:16. Arriviamo alla partenza, ho l’onore di entrare nella tenda degli atleti, cambiarmi con loro. Nessuno parla, sono tutti piuttosto silenziosi, e allo stesso tempo semplici. Pochi gesti, nessun rito scaramantico, nessun riscaldamento. A pochi minuti dal via ci posizioniamo a un metro dallo start. Il cuore in gola. Fa davvero paura essere qui. Mi giro e vedo un fiume di 20.000 persone dietro di noi. Sale la tensione. Pochi secondi. Si parte.

Anche tirando a cannone non si riesce a tenere il passo dei primi nemmeno per 150 metri. Sono alieni. Rallento, cerco il mio passo, e mi stabilizzo. Passano venti minuti, quarto km, e iniziano i primi problemi. La malavoglia della sera prima si amplifica e inizio a sentire qualche problema alla pancia. Fa un po’ male, anche se è sopportabile. Continuo, nella speranza che sia un dolore passeggero. Ottavo km, i dolori non si calmano, anzi, aumentano sempre di più. Inizio a pensare che forse dovrei fermarmi. Arrivo al ristoro del decimo, bevo qualcosa, mi serve un bagno. Non va per niente bene. Da qui in avanti sarà un calvario. Ad ogni ristoro devo bere, ad ogni ristoro mi servirà un bagno. Devo mantenere l’equilibrio dei liquidi o rischio di disidratarmi. 

Continuo, alterno corsa a camminata, ancora convinto di potercela fare. La mente scavalca il fisico e non ne vuole sapere di mollare. Ma le cose peggiorano di km in km. Intorno al diciottesimo, dopo l’ennesima sosta al bagno (ringrazierò personalmente l’inventore dei bagni chimici, quando avrò l’opportunità di incontrarlo) iniziano anche i conati di vomito. Perdo tutta l’acqua che bevo. Vedo due volontarie della Croce Rossa, mi fermo, chiedo se hanno medicinali per problemi gastrointestinali, ma non possono fornirli.

Continuo. Fino al crollo definitivo. Che arriva al km 23. Ormai non riesco più nemmeno a camminare, i dolori sono troppo forti. Vedo altre due infermiere. Alzo la mano, le guardo e chiedo di potermi sdraiare. Mi faccio capire in un mix di italiano, spagnolo e inglese. Tremo, ho un freddo cane. Mi avvolgono in una coperta di pile, ma non basta. Mi gira un po’ la testa, mi danno una coperta termica. Chiamano l’auto del medico, che arriva in pochi minuti. Provano pressione e battito cardiaco, saturazione. Il medico mi dice che è tutto ok (?), aspetta il pullman-scopa e fatti portare al traguardo.

Salgo sul pullman e mi addormento. Passa un’ora, mi risveglio con i crampi. Siamo al km 35. Chiedo all’autista di fermarsi ai primi chimici che vede. Passa qualche minuto ed eccoli. Scendo, e passo i peggiori dieci minuti di sempre. Inutile descrivere. Quando esco tremo di nuovo e non mi reggo in piedi, mi inginocchio e cerco di respirare. Un poliziotto a pochi passi da me mi vede, mi mette il suo giubbotto sulle spalle, mi fa qualche domanda e chiama un’ambulanza.

Una manciata di minuti ed eccola arrivare. Mi fanno salire, riprovano pressione, battito, tutto. Sono disidratato. Mi dicono che faranno una flebo per reintegrare. Ok, dico. Ma ogni tentativo è vano. Sono troppo disidratato e a quanto pare il liquido non ne vuole sapere di entrare nel sangue. Quattro, cinque tentativi. “Se il prossimo tentativo non riesce ti portiamo in ospedale, comprende?” – “Sì”.

Il tentativo non riesce e andiamo in ospedale. Tremo ancora, dicono che faranno 1 litro e mezzo di flebo, non ho più una goccia d’acqua in corpo. Febbre a 39. Sono senza telefono, senza soldi, senza documenti. È tutto nella sacca gara, nella tenda elite. Dopo un’ora mi addormento di nuovo. Arriva un’infermiera e mi dice che dal prelievo di sangue i valori sono ok. Non ricordo nemmeno che lo avessero fatto.

Cerco di capire come fare per contattare qualcuno. Allora chiedo di poter usare per qualche minuto un pc dell’ospedale per aprire la mail e cercare il numero di Victoria. Lo trovo, e chiedo all’infermiera se può chiamarla e spiegarle il tutto, chiedendo di farmi avere la sacca gara da qualche parte. Rimango due ore e passa in ospedale, prima di chiamare un taxi. Quando arriva, la stessa – gentilissima – infermiera spiega al tassista che sono senza soldi e che pagherò a destinazione, quando potrò recuperare la mia borsa. Nel frattempo perdo il volo, che era previsto per le 18.30.

Devo comunque tornare in albergo, dove la mattina avevo lasciato il trolley in custodia. Mi chiama Victoria, mi dice di rimanere lì. Sono riusciti a trovare una sistemazione per me, per un’altra notte. Ringrazio il cielo, e vado subito in camera. Mi sdraio, respiro. La sentenza è gastroenterite virale, fortissima aggiungerei io. Credo di non essere mai stato così male in vita mia. Passo la notte abbastanza tranquillamente, tra qualche risveglio e qualche crampo qua e là. Ancora qualche peripezia e ho anche il volo per il rientro. Decolla alle 15.05.

Oggi, mentre scrivo – sono passati due giorni – sono ancora piuttosto malconcio. Lividi sulle mani per i tentativi di fare le flebo, ho perso circa quattro kg e la pancia continua a lamentarsi. Ma ho la grande fortuna di essere ancora qui a raccontarvi questa (dis)avventura.

Che tutto sommato è un’esperienza da mettere nella scatola delle medaglie. Una medaglia invisibile, ma che pesa più di tutte le medaglie della scatola messe insieme. C’è sempre da imparare nella vita, c’è sempre da imparare nella corsa. 

Ora vi saluto, torno a dormire, ancora un po’..

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